

Interviste
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17/01/2025
Diagnosi e degrado: il restauro delle tombe di Hegra secondo il Prof. Mauro Matteini
L’analisi delle pietre e dei sali e le sfide nel preservare l'autenticità dei monumenti in pietra nel contesto saudita
Il Prof. Mauro Matteini parla del suo ruolo all’interno dell'Hegra Conservation Project, un progetto che unisce la tradizione del restauro italiano alle sfide del contesto archeologico saudita. Tra i temi affrontati, l’importanza della multidisciplinarietà e della diagnostica avanzata e l’approccio del minimo intervento per preservare l’autenticità del sito.
Professor Matteini, questo progetto riunisce competenze italiane e contesti archeologici sauditi. Come dialoga la tradizione del restauro italiano con una realtà culturale così diversa?
Questa diversità culturale e geografica ha causato un forte impatto sia su di me che su tutto il team di restauratori guidato dall’architetto Pecorelli e dei professionisti che sono stati coinvolti nell’Hegra Restoration Project per contribuire con le loro competenze alla buona riuscita della missione. Il sito di Hegra è veramente suggestivo anche perché si trova immerso in un paesaggio molto particolare e affascinante, che comprende montagne e pinnacoli di roccia, quasi uno scenario di sculture naturali. Infatti, una delle peculiarità del sito è la totale interdipendenza tra opere architettoniche e paesaggio: entrambi ci parlano della civiltà dei Nabatei, un popolo di carovanieri che pur in un contesto così difficile è riuscito a realizzare più di 150 tombe di grande impatto visivo, superando evidenti difficoltà logistiche e di approvvigionamento. Nonostante tutti noi avessimo già visto le immagini (o visitato) di siti archeologici altamente suggestivi come Petra, questo non ci ha reso più “preparati” di fronte alla bellezza e monumentalità del sito di Hegra. Domani saranno i turisti, che sono al centro delle politiche del governo saudita, a provare le stesse emozioni, godendo quindi di questa speciale simbiosi tra paesaggio e opere archeologiche.

All'interno dell'Hegra Conservation Project, il Prof. Matteini coordina un team scientifico che esegue specifiche analisi e misure sui campioni prelevati nel sito.
Quali sono le principali cause di degrado delle opere di Hegra e quali gradi di libertà hanno i restauratori in questo contesto?
In effetti in un sito archeologico come quello di Hegra è davvero molto difficile, con gli interventi di restauro, non incidere sul paesaggio e sulle opere. Si tratta infatti di monumenti scolpiti in massicci rocciosi, monoliti fortemente alveolizzati, ovvero pieni di cavità, la cui struttura è legata all’origine stessa di questa tipologia lapidea: sono pietre arenarie, costituite da granuli di quarzo e un’argilla (Caolinite), che originariamente erano sedimenti marini da cui probabilmente l’acqua è evaporata in tempi brevi lasciando dei residui salini permanenti. Si tratta, purtroppo, di sali, difficilmente eliminabili, che fanno tuttora parte della pietra e ne costituiscono la principale causa di degrado.
Sicuramente la tradizione del restauro italiano è stata di grande aiuto per l’Hegra Conservation Project sia perché ha assicurato la competenza di professionisti “forti” di una lunga esperienza nel restauro delle opere architettoniche (personalmente, ad esempio, sono stato Direttore del Laboratorio Scientifico dell'Opificio delle Pietre Dure di Firenze), sia perché, in Italia, siamo soliti confrontarci con pietre arenarie di cui conosciamo bene la vulnerabilità, ma un’arenaria con un contenuto salino permanente, che ne fa parte costitutiva, è un’altra cosa. Sali, infatti, nelle nostre pietre ne troviamo, ma sono per lo più vicini alla superficie perché provengono dall’inquinamento ambientale, e quindi più facilmente trattabili. A Hegra l’inquinamento non esiste. L’aria è pulitissima ma c’è questo problema che complica la situazione. Le piogge del periodo invernale, nel corso degli anni, hanno dilavato i sali della pietra dei monumenti e li hanno portati alla base causandone un accumulo nel suolo davanti ad essi. Dal suolo, poi, risalgono lungo le pareti delle tombe e ne provocano una lenta ma progressiva disgregazione nelle parti in basso. Tutto ciò accade solo nel periodo delle piogge, perché è l’acqua il vero problema, che ristagna e ruscella in vicinanza delle tombe e movimenta i sali. Negli altri mesi dell’anno la situazione è assai più tranquilla.
A conclusione del progetto, dovremo suggerire delle soluzioni migliorative. Non sarà compito facile perché, qualsiasi esse siano, dovranno rispettare al massimo, fin quanto è possibile, l’integrità del paesaggio. Come si è detto, infatti, monumenti e paesaggio identificano, insieme, il valore storico-artistico-naturale, inseparabile, del sito archeologico di Hegra.
La tradizione del restauro italiano ci ha aiutato nell’analizzare e affrontare cause di degrado anche diverse rispetto a quelle che troviamo in Occidente
Quanto è stata importante la multidisciplinarietà nel creare un team di esperti con competenze differenti?
È stata molto importante. Il gruppo comprende un team scientifico altamente qualificato, composto dai Laboratori di Ricerca & Sviluppo di Mapei, dallo Studio di Diagnostica Art.&.Co. presso l’Università di Camerino e da due esperti geologi del CNR di Firenze e di Milano (dott. Fabio Fratini e dott. Roberto Bugini). Personalmente ho il compito di coordinare il team.
Vi è poi un agguerrito team di restauratori coordinato dalla dott.ssa Ylenia Rubino e diretto dall’architetto Pecorelli, responsabile dell’impresa Estia. Fra gli uni e gli altri è necessario che vi sia una buona comunicazione e una costante collaborazione: qualità alle quali sono abituato già dagli anni dell'Opificio dove era prassi interagire giornalmente tra restauratori e ricercatori scientifici. Si tratta di un’etica di lavoro che da subito abbiamo realizzato anche in questa sede, grazie a un’entusiasta diponibilità di tutti.
Ciascuno dei professionisti coinvolti ha messo a disposizione del progetto di Hegra il suo bagaglio di esperienze e competenze e questo è stato un fattore determinante. Così come lo è una sensibilità particolare alle problematiche della conservazione che permette a ogni professionista coinvolto di entrare nel cuore dei problemi.
In particolare, il team dei restauratori ha il compito di individuare le situazioni critiche, documentarle ed effettuare il prelievo dei campioni necessari alle analisi.
Il team scientifico che coordino, composto per lo più da chimici, geologi e petrografi, si occupa di eseguire specifiche analisi e misure sui campioni prelevati. I loro risultati analitici sono quindi oggetto di interpretazione, che è mio compito curare, per definire, dall’insieme dei dati, l’identità e le proprietà dei materiali lapidei e dai prodotti di degrado, il tipo di processi che deteriorano la pietra, come e in quale misura.
Altrettanto importante è il team che si occupa di monitorare il clima (coordinato dalla dott.ssa Paola De Nuntiis del CNR di Bologna), attraverso il posizionamento di una rete di sensori in un ambiente così particolare, delicato e complesso come quello di Hegra, per valutare quanto e come i fattori climatici, oggi resi più acuti dal cambiamento climatico, incidano sulla conservazione delle opere.
Un altro team, composto da informatici, si occupa, in parallelo ai nostri, della ricognizione di tutti i dati che caratterizzano le opere, utilizzando laser scanner ed altra strumentazione specifica, per realizzare un database di ciascuna tomba da cui risultano in maniera dettagliata le caratteristiche costruttive e l’attuale stato di conservazione.
Ciò consentirà, al nostro team, di georeferenziare tutti i dati raccolti dai risultati delle analisi in modo da disporre di un quadro, panoramico e allo stesso tempo specifico, delle varie situazioni. Questo sarà dunque uno strumento determinante per poter poi suggerire interventi conservativi futuri che, in definitiva, è la finalità principale della missione dell’Hegra Conservation Project.
Al tempo stesso permetterà alla Royal Commission for AlUla di disporre di una “fotografia” completa dello stato attuale dei monumenti del sito, e su tale base, di impostare adeguati programmi di monitoraggio: un obiettivo che è poi uno dei requisiti cruciali della conservazione e che va a tutto vantaggio della valorizzazione.

Il team guidato dal Prof. Matteini ha il compito di definire il tipo di processi che deteriorano i materiali lapidei presenti nel sito di Hegra.
Quanto è stata importante l’attività di diagnostica sui materiali in questo progetto?
È stata importantissima come lo è in tutti i progetti di restauro. Lo è perché permette di estrarre dai risultati delle analisi diagnostiche quelle deduzioni che possono poi essere usate come linee guida per gli interventi di conservazione.
A titolo di esempio nel caso di Hegra, la diagnostica è stata determinante per risalire alla complessa effettiva dinamica dei sali solubili, che è risultata quella che abbiamo descritto sopra, mentre all’inizio si pensava che i sali provenissero dal terreno, come di solito accade dalle nostre parti, per poi diffondersi per risalita verso l’alto. E, invece, l’origine primaria era proprio la stessa pietra. L’esperienza accumulata a suo tempo all’Opificio di Firenze mi ha messo di fronte a tanti di quei casi oltremodo complessi e spesso del tutto inediti, per i quali ci siamo dovuti arrovellare per trovare possibili soluzioni. Quindi, è davvero conveniente avere quella elasticità mentale che permette di non meravigliarsi né, tanto meno, scoraggiarsi.
D’altra parte, ogni problema può essere considerato da angolazioni diverse; chi può sapere se qualcosa di negativo secondo un punto di vista, non presenti imprevedibili risvolti positivi sotto un altro?
Questo sembra proprio il caso di Hegra. I tanto deprecati sali, fonte di preoccupazione per le pietre dei monumenti, sono anche quelli che hanno scolpito quelle meravigliose montagne che fanno loro da scenario.
Le innumerevoli cavità che ne tempestano le superfici, create dal ristagno della pioggia e dalla conseguente solubilizzazione e cristallizzazione dei sali replicatesi per milioni di anni, sono proprio quelle che gradualmente ne hanno modellato la forma, creando quegli straordinari pinnacoli che al tramonto, insieme al fascino dei grandi spazi desertici, suscitano un’incomparabile suggestione di quel sito.
Per non parlare, poi, anche di un aspetto scientifico collaterale ai nostri problemi di conservazione…
In un primo tempo, quell’inedito iter di degrado della pietra ha infatti stupito i geologi coinvolti nel progetto: nitrati nelle pietre? Chi ne ha mai sentito parlare! Ma poi ne sono stati incuriositi; hanno consultato testi e testi specifici, trovando poco e nulla. È risultata una casistica rara ma da prendere in considerazione. In definitiva, quindi, ne è uscito un imprevedibile arricchimento delle conoscenze in merito ai tanti diversi fenomeni che possono interessare i materiali lapidei. Per concludere: la nostra diagnostica, indirizzata a precisi obbiettivi di conservazione, ha aperto una finestra inedita su altre realtà.
Negli interventi a HEGRA è stata decisiva la forza del team composto da competenze differenti in collaborazione con centri di ricerca pubblici e privati
Cosa significa per un restauratore preservare l'autenticità di un sito così complesso? Come si concretizza questa sfida all’interno di un progetto, come quello di Hegra, che prevede un approccio basato sul "minimo intervento"?
Quello del ‘minimo intervento’ è uno degli attuali solidi principi della conservazione, mentre in passato non si esitava a ricorrere a tecniche assai più invasive. Ve ne sono altri: quelli della ‘compatibilità’ e della ‘durabilità degli interventi’, per soddisfare i quali, negli ultimi trent’anni, mi sono impegnato a fondo, sviluppando metodi innovativi di protezione, consolidamento, pulitura, che sono stati adottati con successo nel restauro di diversi monumenti architettonici di rilievo. Ovviamente questi principi devono valere anche per Hegra dove, però, molto più che altrove, devono integrarsi col rispetto del paesaggio, perché questo fa parte delle opere così come le opere fanno parte del paesaggio.
Hegra quindi, richiede di adottare un approccio ancora più prudente del consueto. Impronteremo i nostri suggerimenti su questi principi riassumibili appunto nella definizione di “minimo intervento” nel senso di alterare il meno possibile l’esistente, compatibilmente con l’efficacia dell’intervento. Così, ad esempio, per il consolidamento delle parti ammalorate dai sali si dovranno scegliere consolidanti poco invasivi e allo stesso tempo altamente compatibili. Ovviamente tutto ciò, facile da affermare ma difficile da realizzare, configura una sfida, ma allo stesso tempo, rende il progetto ancora più interessante.

L'esperienza accumulata durante l'Hegra Conservation Project ha contribuito a sviluppare nel team dei restauratori nuove competenze dovute al fatto di confrontarsi con situazioni inedite.
Che influenza può avere questo progetto sulle nuove generazioni di restauratori?
Sicuramente questa esperienza ha contribuito a sviluppare, all’interno del team, nuove competenze dovute al fatto di confrontarsi con situazioni inedite, diverse da quelle in cui i nostri professionisti sono soliti confrontarsi. Fortunatamente, i restauratori sono ben preparati e dotati di una fine sensibilità.
Da tempo conoscevo il team di Estia, per avere già lavorato con alcuni di essi. Sapevo con quale grande passione ed entusiasmo sapevano affrontare i problemi: “doti” indispensabili nel restauro, ma non così ricorrenti. Essi hanno fatto un ottimo lavoro, in particolare per il prelievo di campioni.
Come questa esperienza ha profondamente inciso su noi, esperti più “navigati”, altrettanto ha lasciato un’impronta e un bagaglio di conoscenze importanti nei giovani restauratori di Estia. Ora, completata la prima fase del prelievo dei campioni, ha inizio la seconda fase, quella dei test dei trattamenti di restauro. È una fase intermedia, cruciale, proprio perché comprende la verifica dell’idoneità dei materiali e dei procedimenti da adottare.
Questi test verranno effettuati su aree di limitata estensione, ma significative delle problematiche individuate dalla diagnostica.
Anche questa fase permetterà ai restauratori di accrescere le loro competenze che potranno mettere poi a frutto per essere impiegati in contesti simili, come altri siti archeologici in Arabia Saudita o anche altrove.
Alla fine della missione, su tutto quanto è stato studiato, interpretato, verificato e realizzato nelle prove preliminari sarà redatto un volume che permetterà di condividere le conoscenze e le innovazioni acquisite nel corso dell’Hegra Conservation Project con i team di restauro che operano in altri luoghi, in altri Paesi.
Nello stesso sito di Hegra ci sono aree e opere di cui non ci siamo occupati in questa fase e per la conservazione delle quali si potranno impiegare tecniche e soluzioni simili sempre nell’ottica di rispetto della materia e del patrimonio storico mondiale. Similmente si potrà portare l’insegnamento di questa missione nelle università come materiale didattico per le nuove generazioni di restauratori.
Mauro Matteini
Mauro Matteini è un eminente chimico italiano, nato nel 1943 a Vinadio, in provincia di Cuneo. Si è laureato in Chimica presso l'Università degli Studi di Firenze e ha iniziato la sua carriera presso il Centro di Studi per le Opere d'Arte del CNR1. Ha poi ricoperto il ruolo di Direttore del Laboratorio Scientifico dell'Opificio delle Pietre Dure di Firenze fino al 2002.
Dal 2002 al 2007, ha diretto l'Istituto per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali del CNR. Durante la sua carriera, ha condotto e coordinato numerose campagne diagnostiche su opere d'arte di grande rilievo, tra cui il David di Michelangelo e l'Ultima Cena di Leonardo1.
Il Prof. Matteini ha pubblicato oltre 350 articoli scientifici e curato diversi libri sulla conservazione e la diagnostica delle opere d'arte. È stato eletto Accademico d'Onore dall'Accademia delle Arti del Disegno (AADFI) nel 2023.
